Painting Goldrake di Alessandra Chicarella
Granelli di sabbia di Marcello Trabucco
vernissage mostre d’arte contemporanea
Giovedì 25 Aprile Ore 18:00
Alessandra Chicarella “Painting Goldrake”
testo critico di Elena Damiani
“Raccontami una storia. Non deve essere bella. Deve essere vera.” La storia è quella di una bambina della fine degli anni ‘70, che aspettava con ansia l’ora della merenda pomeridiana per guardare alla televisione una nuova puntata di Atlas Ufo Robot gustando spensierata un panino con la Nutella. Incantata come molti suoi coetanei davanti allo schermo, abbagliata dai colori e dalla fantasia del disegnatore giapponese Gô Nagai, quella bambina non sapeva di partecipare a una seppur non dichiarata rivoluzione culturale, che avrebbe cambiato radicalmente il modo di concepire il genere e l’estetica del racconto animato per ragazzi. Come ben spiegato da Francesco Giacomantonio in un volume pubblicato in occasione dei 40 anni del cartone (Shooting star! Sociologia mediatica e filosofia politica di Atlas UFO Robot, Fondazione Mario Luzi editore, Roma 2015), la saga scatenò un importante dibattito sociale, soprattutto in Italia – qui trasmessa per la prima volta nel 1978 – dove provocò lo scontro tra genitori preoccupati per l’educazione dei propri figli, con la cosiddetta “crociata di Imola”, e intellettuali di altissimo livello pronti a difenderne i riferimenti epici, come quello, secondo Gianni Rodari, dell’Ercole moderno. Lo stesso Giacomantonio parte dal contesto storico della fine della guerra Fredda e dei grandi movimenti pacifisti di quegli anni per svelare la molteplicità dei piani di lettura della serie giapponese. Si pensi al livello interpretativo di tipo politico, con la messa a confronto tra Vega, come modello imperialista/totalitarista, e la Terra, in quanto emblema di una società cosmopolita, fondata sul concetto di libertà e accoglienza; oppure si consideri gli aspetti filosofici, in particolare nella figura di Actarus, alias Duke Fleed, re-filosofo di matrice platonica e Ulisse contemporaneo, straniero in terra straniera che restituisce la generosità dei terrestri ospitali difendendo con coraggio il loro pianeta. Tutti questi spunti, e in particolare la riflessione sui concetti universali di bene, di male, e sulle “sfumature di grigio” che si celano in questo dualismo assoluto, rivelatrici dell’umanità di esseri provenienti da mondi alieni, sono l’eredità morale permasta nella memoria di Alessandra Chicarella, quella bambina oggi donna che meditando in termini figurativi sulla sua infanzia, non ritrova in Goldrake solo il ricordo di una felicità innocente, ma anche un’allegoria della bontà e della giustizia sociale come valori idealizzati. Ogni tela suggerisce in modo più o meno esplicito il volto del celebre robot gentile, nei suoi tratti dominanti di blu e rosso, immerso in composizioni rivolte all’essenzialità attraverso l’uso di colori puri e accesi, vivi e liberi di muoversi nello spazio bianco, dinamici e veloci come i personaggi della serie in fuga continua verso le proprie navicelle spaziali. Nella produzione più recente la forma arriva a identificarsi perfettamente col suo contenuto e i protagonisti degli episodi che danno il nome alle opere vengono tratteggiati nei loro caratteri strutturati attraverso segni leggeri e decisi, fino alla sintesi totale, dove la semplicità delle pennellate e delle colature riduce in termini quasi ermetici la sostanza del messaggio, permettendo all’artista di cogliere in modo definitivo tutta la semplicità e la purezza di una storia bella e soprattutto vera.
Marcello Trabucco “granelli di sabbia” _installazioni e pittura
testo critico di Marcella COSSU
In realtà, quest’universo di geometrie edulcorate e forme ludiche dai colori squillanti richiama sensibilmente l’esperienza di un’avanguardia dell’astrattismo italiano fra le guerre, dalle composizioni polimateriche di Prampolini ad alcuni calembour di Depero, ma soprattutto l’esprit metafisico del razionalismo magico di Soldati, Reggiani e Licini, fautori in primis di una visione del mondo insieme lirica e geometrico-distratta, come appunto è oggi quella offerta dal colto e fantasioso vedutista-visionario che si dimostra essere Marcello Trabucco. Questo scrivevo nel novembre 2014, e non me ne voglia nessuno per l’autocitazione, tratta dalle righe di coda dello scritto di presentazione di una mostra di Marcello Trabucco presso la raccolta Manzù di Ardea, mostra curata così come molte altre dal Fabio D’Achille caposaldo con MAD della “scuola pontina” di cui Trabucco è a sua volta esponente di quella “generazione di mezzo” cresciuta a contatto con Claudio Cintoli e Sergio Ban. In quell’occasione mi era sembrato opportuno porre l’accento sulla “doppia anima” di Trabucco, caratterizzata negli anni dall’alternanza di una facies neocostruttivista, ludica e colorata, con una più filologica e scrupolosa di lirico ricostruttore del paesaggio pontino reso in una serie d’incisioni dal sapore antico; l’intervento odierno invece propende senz’altro per quel genere di “geometria distratta” così congeniale alle esuberanze neoavanguardistiche di questo singolare artista – architetto. Tre nuove strutture totemiche – e in questo come non ravvisare, se pur solo in parte, il riflesso delle più calibrate sculture-colonna educatamente policrome del rimpianto Sergio Ban, nella felice volontà di campire lo spazio con voluAlemi-colore – si aggiungono ad arricchire l’universo fantastico di Trabucco, che sembra costantemente tratto da scenografie e fondali per rappresentazioni teatrali, in cui su mari cobalto beccheggiano piccole navi, e soli dorati riscaldano alberi dalle verdi fronde ad una ad una ritagliate, e, talvolta, fiori geometrici esplodono d’inattese e squillanti esuberanze cromatiche.Ricorda, il colore steso uniforme à plat, il clima di certe composizioni del tardo de Chirico, quando il sole non è più che un merletto, un origami traslato dal cielo al pavimento, e l’ombra si fa, sgomitolata per terra, denso arabesco scuro e concluso ad esso congiunto come cordone ombelicale. Lacerti di frecce convergenti nel cuore di un tiro a segno, palizzate, frammenti di paesaggio elementare infantile e primordiale rassicurano ed inquietano al tempo stesso: una geometria meno geometrica e meno distratta, forse, che per il passato, nel farsi corpo e sintassi di un discorso nuovo.
Palazzo Della Cultura Viale Umberto I 43